Ivan De La Peña

    Ivan de la Peña

    C’è stato un tempo, a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, in cui in Italia potevamo portare qualsiasi calciatore, dal fenomeno già affermato al giovane talento in rampa di lancio, prima che chiunque altro avesse voce in capitolo. Il prezzo, ahinoi, lo avremmo pagato pochi anni più tardi, e stiamo parlando di un costo salatissimo per la credibilità del nostro sistema.

    Fatto sta che nel 1998, in Italia, tantissime squadre hanno legittime ambizioni di gloria e tra queste vi è la Lazio che in estate, nel mercato di inizio stagione, non ha badato a spese. Cragnotti acquista Marcelo Salas, Dejan Stankovic, Sinisa Mihajlovic, Sergio Conceiçâo, Christian Vieri e Ivan de la Peña.

    È facile oggi, con il senno di poi, dire che tutti questi calciatori hanno lasciato un segno pressoché indelebile nella storia biancoceleste ad eccezione di uno, Ivan de la Peña, passato senza quasi lasciare traccia. Eppure all’epoca il suo acquisto venne considerato, a ragione, un vero e proprio colpo sensazionale della Lazio, che aveva portato nel nostro campionato uno dei giovani più forti in circolazione, versando nelle casse del Barcellona 30 miliardi di lire e mettendo nelle tasche del giocatore un contratto da 6 miliardi a stagione, una cifra che fino ad allora era stata superata da solo 2 calciatori: Maradona e Ronaldo. Questo giusto per darvi l’idea delle credenziali con cui lo spagnolo sbarca a Roma.

    Ivan de la Peña

    Il motivo di tanto interesse è da ricercare nell’inizio sfolgorante di carriera di de la Peña, nato a Santander il 6 Maggio 1976 e cresciuto prima nelle giovanili della squadra della sua città natale, il Racing Santander, e successivamente nella Masìa del Barcellona. È proprio qui, dal 1992 al 1995, anno in cui esordirà in prima squadra, che a Lazio che in estate, nel mercato di inizio stagione, non ha badato a spese. Cragnotti acquista Marcelo Salas, Dejan Stankovic, Sinisa Mihajlovic, Sergio Conceiçâo, Christian Vieri e Ivan de la Peña si mette in evidenza come uno dei migliori prospetti in circolazione, non soltanto in Spagna bensì al mondo. Il suo ruolo naturale è quello di centrocampista avanzato, non è veloce, per nulla, ma possiede una tecnica e una visione di gioco che gli permettono di vedere qualsiasi giocata con estremo anticipo.

    Lo chiamano il piccolo Buddha, per via della sua testa completamente rasata già in giovanissima età e nel 1995 viene eletto miglior giocatore del Barça B.  Seduto in panchina, in prima squadra, c’è Johan Cruyff, che gli concede la possibilità di esordire tra i grandi prima di abbandonare il timone della barca a Bobby Robson, il quale non soltanto lo conferma in prima squadra ma ne fa un perno del centrocampo blaugrana.

    È un Barcellona stellare quello del ’96-’97, con campioni del calibro di Ronaldo, Stoichkov, Figo, Luis Enrique, Guardiola, Nadal e tanti altri tra cui Ivan de la Peña si inserisce alla perfezione. L’intesa con Ronaldo è semplicemente perfetta ed i filtranti dello spagnolo, che tagliano le difese avversarie come una lama rovente affonda nel burro, sono dei cioccolatini da scartare per il fenomeno brasiliano.

    De la Peña fa anche parte della spedizione olimpica spagnola del 1996 ad Atlanta, insieme ad un altro giovane che farà molto parlare di sé e che, a differenza sua, manterrà le speranze in lui riposte, stiamo parlando di Raul.

    Parallelamente alla sua crescita iniziano a palesarsi le lacune che alcuni allenatori, come il tecnico della selezione olimpica spagnola e un certo José Mourinho, vice di Robson al Barcellona, non mancano di evidenziare. Il calciatore ha una classe innata ma è svogliato, una volta che perde il pallone e deve rincorrere l’avversario è una tragedia.

    La stagione ’96-’97, in ogni caso, si può considerare trionfale dal punto di vista personale, con la vittoria da protagonista di Coppa del Re, Coppa Uefa e Supercoppa Uefa, ed il secondo posto in campionato alle spalle del Real Madrid. Con l’arrivo in panchina di van Gaal, l’anno successivo, le cose cambiano e de la Peña viene relegato un po’ ai margini della squadra, cosa che gli fa prendere in considerazione l’idea del trasferimento. I soldi di Cragnotti, come detto, faranno il resto.

    Lo spagnolo arriva alla Lazio piuttosto fuori forma, sovrappeso, nonostante ciò fa parte della squadra che solleverà la Supercoppa italiana contro la Juventus, dopo il successo per 2-1.

    La concorrenza nel centrocampo biancoceleste è a dir poco spietata e de la Peña, come si capisce ben presto, è uno a cui sgomitare per guadagnarsi il pane non piace affatto.

    Eriksson gli concede qualche possibilità ma le poche volte in cui il centrocampista viene impiegato delude enormemente. Lento, prevedibile, impacciato, sembra il lontano ricordo di quel geniale calciatore che fino a poco tempo prima aveva fatto luccicare gli occhi di mezzo mondo.

    A fine anno vince la Coppa Uefa contro il Maiorca ma il suo ruolo all’interno della squadra è quello di un semplice comprimario, ruolo che poco si addice a chi è stato pagato quella cifra e doveva diventare un nuovo fenomeno.

    Il piccolo Buddha, imbronciato, fa le valigie e vola in Francia all’OM, in prestito, ma la sua carriera non resuscita. Al contrario, sembra sprofondare sempre più in basso. Prova la classica carta del ritorno a casa, a Barcellona, ma niente è più come prima, soprattutto nella sua testa. La Lazio, nel 2002, si deve arrendere e lo cede all’Espanyol: ironia della sorte de la Peña torna a Barcellona, tra le fila dei cugini rivali. Qui ritrova un po’ di tranquillità, pur non riuscendo mai ad esprimersi sui livelli che lo avevano reso celebre nei suoi primi anni di attività. Nonostante ciò nel 2005, a 29 anni, viene chiamato per la prima volta in Nazionale maggiore e nella stagione 2008-2009 riesce a togliersi la soddisfazione di segnare una doppietta nel derby contro il Barcellona, vinto per 2-1 grazie alle sue reti.

    Molti appassionati di pallone, analizzando la parabola discendente della sua carriera, il cui punto più basso è stato raggiunto probabilmente nella sua esperienza italiana, lo hanno definito un genio incompreso, le cui illuminazioni improvvise sono state spesso offuscate da un’attitudine sbagliata, inconciliabile con la permanenza ad alto livello per un periodo di tempo continuativo.